L’isola felice di Monsieur Donnet

Un bell’articolo di Philippe Donnet, il capo delle Assicurazioni Generali, indica i tre “imperativi” che le aziende davvero “virtuose” dovrebbero osservare nella “gestione del capitale umano” (orrenda espressione, peccato).

L’articolo lo potete leggere sul Sole 24 Ore del 21 gennaio o sulla sua edizione online.

I tre imperativi indicati da Donnet sono:

  1. innovare il modo di lavorare, semplificando i rapporti interni all’azienda mediante l’adozione di modelli “semplici e meno verticali“, ed i rapporti esterni, bilanciando meglio, per esempio, “vita professionale e privata“.
  2. assicurare valutazioni con criteri meritocratici, vale a dire “oggettivi, trasparenti, rispettosi” e che premino “diversità … creatività … spirito di iniziativa“.
  3. condividere “valori … di lungo termine“.

Le proposte di Donnet si inseriscono nel solco di un pensiero aziendale illuminato che ha sempre preteso un collegamento stretto fra impresa e società.

Senza scomodare nessuno, basterà ricordare che la nostra Costituzione scrive che “l’iniziativa economica privata è libera“, ma che essa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art. 41).

Ma se sviluppo sociale e progresso economico si devono alimentare a vicenda, e ciò è tanto vero da essere addirittura scritto nella Costituzione, perché il capo della più grande azienda italiana si è scomodato per ricordarcelo?

Semplice: perché non è così. O perlomeno è molto lontano dall’essere così per tutti.

Quello che scrive Donnet lo si legge spesso nei discorsi dei capi delle grandi aziende. Chi non ha mai sentito l’espressione, noiosamente ripetuta, best place to work?

L’idea che c’è in giro, e non solo da noi, del best place to work è di mettere le palestre in azienda, di far lavorare le persone in uffici pittoreschi e di avere i supermercati bio.

Pura ipocrisia aziendale finalizzata a costringere le persone a restare in azienda ancor più a lungo di quello che già non fanno, convincendole che in azienda si sta bene.

Peccato che in azienda non si sta bene perché c’è il supermercato bio. In azienda si sta bene quando si semina la cultura del rispetto reciproco, del benessere reciproco, della soddisfazione reciproca, della responsabilità reciproca.

Le grandi aziende come quella di Donnet hanno in questo una grande responsabilità. Possono, per la loro posizione di prestigio e per l’influenza che hanno sul mercato, non solo implementare per prime e meglio delle altre le best practice nel rapporto lavoro/impresa. Ma possono, soprattutto, pretendere da quelle con le quali collaborano gli stessi standard.

Cominciando dai propri fornitori che molto spesso sono lontani anni luce dall’adottare con i propri dipendenti le stesse best practice dei loro clienti. E ai quali spesso le grandi aziende virtuose impongono termini e condizioni di lavoro incompatibili con le best practice.

Un esempio a caso? Gli orari di lavoro imposti dai (senior partner dei) grandi studi legali alle giovani avvocatesse ed ai giovani avvocati, del tutto incompatibili con la gestione di una famiglia sana. Ma spesso necessari a soddisfare le esigenze di clienti importanti.

Le grandi aziende modello come isole felici di benessere in un oceano di malessere diffuso non servono a nessuno.

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