Chi è il cliente di un avvocato?

La clientela è il solo assett dell’avvocato. Non esiste avvocato senza clientela. L’avvocato monocliente è in realtà un dipendente del suo unico cliente. Il valore di un avvocato oggi si misura sulla sua capacità di generare utile e questo dipende esclusivamente dalla qualità e dalla quantità della sua clientela. A qualcuno questo modo di ragionare potrà sembrare riduttivo e magari anche cinico. Non a chi ha fatto almeno un colloquio per entrare in uno primario studio legale. O a chi alla fine del mese paga l’affitto del suo studio. A tutti voi, e a quelli che prima o poi ci passeranno, consiglio di leggere questo post e di pensarci sopra.

Chi è il nostro cliente

Formalmente quello che ci conferisce l’incarico. Sostanzialmente quello dal quale dipende il nostro incarico. Questa distinzione pone una serie di problemi. Se si tratta di un privato le due persone il più delle volte coincidono. Così anche in caso di aziende a ristretta base proprietaria. Il padrone è l’azienda e viceversa. Può succedere che il padrone abbia una visione diversa dalla nostra dell’interesse aziendale, ma fintanto che la visione del padrone non ci costringe a dire o fare qualcosa di illecito o contrario ai nostri imperativi morali, si fa come dice il padrone.

Quando però passiamo a considerare enti un po’ più complessi come le grandi aziende, o situazioni di potenziale divaricazione di interessi, come le curatele, le cose cambiano. Se siamo fiscalisti e siamo stati ingaggiati da una grande azienda, il nostro cliente è la grande azienda, ma il nostro incarico dipende dal tax manager o al più dal CFO. Ed è lei o lui che stabilisce cosa è, cosa non è nell’interesse dell’azienda. Di nuovo, fintanto che non siamo costretti a dire/fare qualcosa di illecito o contrario ai nostri imperativi morali, si fa come dice il nostro referente. Sennò l’incarico la prossima volta lo danno ad un altro.

In un mondo ideale il nostro referente dovrebbe essere lieto di conoscere la nostra opinione su qual è il miglior interesse per l’azienda.

Ma non viviamo in un mondo ideale e quindi pensateci bene prima di dire la vostra opinione su questioni non strettamente connesse al vostro incarico. Anche perché le possibilità che possiate sbagliarvi sono elevate.

Conclusione: individuate chi è il vostro cliente effettivo e non date per scontato di saperne più di lei o lui.

Il cliente imperfetto

Diffidate del cliente perfetto, quello che ha perfettamente chiari quali sono i suoi interessi e i suoi obiettivi. Nella maggior parte dei casi commetterà degli errori dei quali proverà a scaricare la responsabilità su altri, in primis il suo avvocato.

Allo stesso modo diffidate del cliente perennemente insicuro dei propri interessi ed obiettivi. Vi farà lavorare molto, realizzare poco e vi pagherà ancora meno.

Il cliente ideale è imperfetto, è conscio della sua imperfezione e si circonda di persone delle quali ha fiducia, che compensano le sue imperfezioni.

Con il cliente imperfetto si crea immediata empatia e gli errori sono meno frequenti e meno gravi perché le decisioni sono condivise. Con il cliente perfetto gli errori sono fatali e con il cliente insicuro sono inevitabili.

È difficile che i clienti siano al primo colpo riconoscibili, ma prima o poi si rivelano per quello che sono e dovete essere in grado di accorgervene.

Con i primi due tipi le precauzioni non sono mai abbastanza e un giorno o l’altro vi si rivoltano contro. Bisognerebbe avere il coraggio di lasciarli appena si rivelano.

Mappate il cliente il prima possibile e non abbiate paura di voltargli le spalle.

Il cliente amico

Il cliente non è né amico, né nemico: il cliente è cliente. E non è nemmeno un socio d’affari.

Distacco ed empatia sono le regole ferree di un sano rapporto professionale. Il rapporto è di affari e non di affetti ed è regolato dallo scambio prodotto contro denaro. Ma anche un rapporto di affari ha bisogno di condivisioni empatiche, senza le quali mancano gli stimoli.

Queste sono le premesse per rapporti professionali duraturi.

Il cliente interno

Gli associate – ma anche i soci di alcuni dipartimenti dei grandi studi, come i salary – non lavorano per il cliente, ma lavorano per un socio che lavora per il cliente. In questo caso il cliente dell’avvocato non è il cliente dello studio (cliente esterno), ma il socio (cliente interno). È dal socio infatti che dipende il suo lavoro e il suo guadagno.

In teoria la distinzione non dovrebbe avere peso. Il socio dovrebbe riportare all’associate/salary le necessità del cliente esterno e tutti insieme, socio e associate/salary, lavorare per un comune obiettivo. Si dovrebbe gareggiare insieme in una ideale squadra.

In pratica non è così. Nella squadra ogni atleta ha pari responsabilità e dignità. Il capitano stabilisce la strategia, ma non dice al terzino come si fa a marcare l’attaccante. Cosa che succede regolarmente nei rapporti fra associate/salary e soci. Ed entro certi limiti è anche giusto che sia così, soprattutto all’inizio della professione.

L’associate/salary inoltre non percepisce come proprio obiettivo quello di soddisfare gli interessi del cliente che spesso nemmeno conosce, ma quello di soddisfare gli interessi del socio e fra le due cose c’è una sottile, ma importante differenza.

L’associate/salary è nella situazione dell’avvocato monocliente il cui guadagno dipende interamente dalla soddisfazione di una sola persona. La sua subordinazione è inoltre non solo economica, ma anche gerarchica, condizione meno evidente nel caso dell’avvocato monocliente.

L’avvocato che lavora per il cliente interno è in una condizione dalla quale si deve affrancare il prima possibile. All’inizio della carriera professionale è una condizione inevitabile. Ma deve essere chiaro a tutti, socio e associate/salary, che si tratta di una condizione temporanea.

Se siete un associate e non vi danno esposizione esterna, non vi permettono di costruirvi una clientela: quello non è il posto giusto. Salvo che a voi vada bene così, ma in quel caso è il lavoro sbagliato. Prima o poi vi sostituiscono con un associate più giovane e meno costoso.

Lo stesso vale per il salary partner di uno studio legale diviso in dipartimenti che lavora a supporto degli altri soci. Prima o poi finisce schiacciato.

Il lavoro con il cliente interno richiede degli aggiustamenti rispetto alla situazione fisiologica dell’avvocato che lavora con il proprio cliente o comunque avendo un rapporto diretto con il cliente.

Anzitutto l’analisi situazionale è limitata dalle informazioni messe a disposizione dal socio e dalla loro accuratezza. Sarà pertanto necessario fare ampio ricorso alle assumption. Nel know-how legale prevalgono le competenze giuridiche su quelle extragiuridiche. Infine, il legal writing assume una funzione diversa rispetto al caso del cliente esterno, se il vostro memo è per il socio. Chi legge è un avvocato.

Obbligazione di mezzo vs. obbligazione di risultato

La legge italiana dice che l’avvocato assume verso il cliente una obbligazione di mezzo. La responsabilità del risultato appartiene al cliente. In teoria. In pratica se un avvocato vende solo soluzioni che non funzionano, non ha clienti e quindi nemmeno obbligazioni.

La responsabilità di fornire al cliente la miglior soluzione legale possibile è nostra. Possibile vuole dire che massimizza le possibilità di successo del cliente. Cosa è da intendersi come successo e cosa è da intendersi come insuccesso va deciso e condiviso con il cliente in modo chiaro prima di cominciare a lavorare.

Se pensiamo che l’obiettivo posto dal cliente non sia realisticamente possibile, il dubbio va condiviso con il cliente. Se il cliente insiste per andare avanti dovete capire il perché della scelta e decidere se accettare comunque l’incarico. Oggi gli avvocati tendono ad accettare qualsiasi incarico a qualsiasi condizione. Ma un conto è accettare un incarico, un conto è fare l’avvocato. Non si può fare l’avvocato se non si condividono gli obiettivi del cliente. Si fa un altro lavoro.

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